TRY WALKING IN MY SHOES…SI PUò IMPARARE AD ESSERE EMPATICI?
“you’ll stumble in my footsteps keep the same appointement I kept” WALKING IN MY SHOES, DEPECHE MODE
Mi sono sempre chiesta se l’empatia si può imparare, sviluppare, insegnare, persino motivare, oppure se è qualcosa che c’è o non c’è. In un’epoca dominata da una mentalità individualista ovviamente si soffre la mancanza di quest’elemento portante che “banalmente” ha permesso che il mondo andasse avanti; se siamo interessati a qualcosa al di fuori di noi proteggiamo, difendiamo e abbassiamo il livello di aggressività. In caso contrario siamo egocentrati, eccessivamente autocelebrativi, e indifferenti a qualsiasi cosa non ci riguardi o facilmente suscettibili se non veniamo riconosciuti come esseri speciali.
Se predomina un’ottica narcisista l’attenzione invece nasce e muore focalizzata unicamente nel proprio Ego. Ho pensato anche a seguito dell’illuminante lettura di Jean Twenge e W. Campbell – The narcissism epidemic– che un “rimedio” al narcisismo, sia proprio lo sviluppo dell’empatia che toglierebbe il focus dall’Io e lo sposterebbe sul resto del pianeta…ma come motivare qualcuno che non riconosce le proprie ed altrui emozioni (sovente persino la sacrosanta necessità di sentire) a scendere dal proprio piedistallo per incontrare l’Altro ? E soprattutto quando è la società che proclama ovunque che è giusto così, o?
Le autrici anche a seguito di ricerche sul problema, affermano che “se le persone affette da narcisismo investono i propri bisogni narcisistici in un’organizzazione di volontariato ad esempio, il livello del loro disturbo si riduce…. Insegnare l’umiltà, far comprendere i benefici che l’impegnarsi profondamente nelle relazioni disinnescherebbe nel tempo l’egoismo e l’egocentrismo. Finchè l’amore è rivolto a soddisfare e nutrire l’ego, non ci può essere spazio per amare l’altro. Il bisogno di legittimare sopra ogni cosa il diritto e il meritare di più, porta infatti inevitabilmente ad una perdita di empatia”
GENERARE EMPATIA In genere non riesco ad appassionarmi alle serie, ma quando ho scovato The good doctor ho capito dopo i primi 20 min che l’avrei divorata. Mi era successo, ma non così intensamente con Dr House ( tra l’altro l’ideatore è lo stesso David Share), devo credere banalmente che ho una predilezione per le medical drama? Forse, ma c’è di più: ad attirarmi ed ipnotizzarmi in questo caso è misto di emozioni ed interesse; un interesse per la comunicazione quando cerca di raggiungere l’efficacia, per la forte sensibilità dei personaggi, per l’insegnamento del confine tra empatia ed assertività, per la riflessione su tematiche etiche importanti, least but not last, per una dose di umanità che manca parecchio nella vita di tutti i giorni.
Ed è stato guardando The good doctor che mi sono chiesta se l’empatia si può apprendere. Per quanto romanzata la serie tratta di un giovane chirurgo Shaun Murphy interpretato genialmente da Freddie Highmore; affetto da autismo ma anche con la sindrome del savant, fatto che spesso crea confusione perchè come in Rain man si tende a pensare che l’autismo sia soprattutto quello. Nella realtà le abilità mentali eccezionali del savant, come la memoria visiva fuori dal comune, la capacità di analisi veloce e originale, sono assai rare, come le abilità minime per l’autonomia quotidiana. La norma per chi soffre di autismo è molto più triste e restrittiva, molto spesso i deficit cognitivi sono tali per cui provvedere a sè stessi, come spostarsi con i trasporti pubblici è già un enorme obiettivo se raggiunto. La sindrome di autismo non riguarda solo la sfera relazionale e l’assenza di attivazione dei neuroni a specchio, quindi l’empatia, ma l’esistenza in generale. Proprio di recente è apparsa la notizia di allontanamento di un bambino affetto da autismo dal gruppo parrocchiano, perchè incontrollabile.
Anche sul tema dell’inclusività vi è una riflessione costante nella serie (molto bello tra l’altro il discorso introduttivo sulle convinzioni limitanti di chi deve assumere il giovane chirurgo), sui bias che abbiamo e che avremmo incontrando un medico con tale disabilità. Sembra un paradosso difatti, da un lato una professione tra le più delicate, se non la più in assoluto, e una disabilità importante. Forse il raggiungimento di tali capacità nella realtà è piuttosto utopistico, ma comunque ci viene da pensare quanto tendiamo a trattare come diverso qualcuno che ha un deficit, un handicap, ad escluderlo in qualche modo dal concetto di persona e perciò dalla dignità, anche e solo inconsciamente. Inoltre a volte per pigrizia, a volte come fuga dalle responsabilità della vita, molte problematiche oggi riguardano persona che volontariamente si sottraggono dal dovere di stare al mondo. E mi commuove tanto, quando spesso Murphy afferma che quella persona ha un male curabile, lui un deficit inoperabile.
Nella storia le problematiche del Dr Murphy riguardano quasi unicamente la sfera relazionale e affettiva, la difficoltà di entrare in empatia con i pazienti e i loro famigliari, nonchè con il mondo circostante, che non ha avuto modo di conoscere prima anche per una famiglia altamente disfunzionale.
Superato il bias del suo handicap, l’autismo si dimostra persino la sua forza, perchè gli permette di analizzare la situazione clinica con un punto di vista del tutto originale e trasversale che determina spesso la soluzione del caso. Per quanto concerne invece la sua difficoltà di entrare in empatia, difficoltà che mi sembra appartenere anche a molti non autistici, viene compensata da una volontà commovente che ce lo fa adorare sin da subito, nel seguire modelli, fare mappe strutturate che lo aiutino a capire meglio gli altri, ad imparare cioè come può quello che non riesce a fare. E ogni volta mi domando : se chiunque abbia problemi di empatia si adoperasse così tanto a migliorarla, come sarebbe diverso questo mondo?
QUESTIONE DI NEURONI A SPECCHIO Le sue domande ingenue arrivano talvolta a svelare le ipocrisie di coloro i cui neuroni a specchio non hanno un malfunzionamento, ma non per questo eccellono in comunicazione e sensibilità. Ogni personaggio è scelto molto bene, ognuno con una storia difficile, con forte umanità, ognuno che rivela un grande coraggio ( e ci mostra cosa significhi seppur in modo molto attenuato, fare quella scelta professionale, le domande, i dubbi, la fatica, la fondamentale necessità di restare focalizzati per ore a prescindere dalla propria vita, osservare l’impotenza, assistere inerme alla morte dei propri pazienti).
Ma perchè guardare la serie potrebbe essere d’aiuto nel apprendere l’empatia?
MANCANZA DI EGO C’è un aspetto che contraddistingue Shaun dal suo team, la mancanza di ego: non prova rivalità, nè bisogno di superiorità sugli altri, nè accettazione, nè voglia di sentirsi “bravo”, non è affetto da sindromi individualiste. Questa purezza lo rende capace di non mettere sè stesso davanti agli altri e probabilmente lo aiuta a trovare un contatto che seppur non è empatia in senso fisiologico, ma funziona abbastanza se applicato con costanza e diligenza. Ciò che lo muove è salvare vite, non un riconoscimento personale
Non so quanto nella vita “reale” questo potrebbe accadere, se davvero chi, come coloro che sono affetti da disturbo narcisistico di personalità, o disturbo anaffettivo per cui non riescono a mettersi nei panni degli altri, facendo modeling in modo ripetuto ci potrebbero riuscire alla fine . La stessa Twenge in fondo in nel suo libro sostiene che spingere persone sebbene in modo inizialmente artificiale, con forti dosi di narcisismo ad occuparsi degli altri, renderebbe questa società un pò alla volta meno individualista, pur partendo da basi prettamente non autentiche. Con il passare del tempo le persone ritroverebbero il piacere di fare le cose per la comunità e quel piacere che nasce (nasceva????), dal prendersi cura del prossimo.
IPEREMPATIA PATOLOGICA E’ chiaro che più c’è volontà e determinazione, più come ogni cosa con queste premesse, funziona meglio e funziona prima. Sappiamo invece bene come l’uscire da una dinamica narcisista pretenda l’abbandono faticoso dei propri privilegi, dalla mania del controllo, dalle doverizzazioni del perfezionismo patologico. L’empatia si può imparare in fondo come si può imparare anche il contrario, a non cadere nella trappola dell’iperempatia dove il senso di compassione per gli altri spesso soverchia l’ascolto dei bisogni profondi di chi ne soffre, al punto da annientare i propri diritti per far posto sempre agli altri.
Murphy anche qui insegna che scegliere con l’empatia non sempre è la scelta migliore, anzi; scegliere emotivamente (lo sanno i pubblicitari) è una scelta dettata dall’impulso in alcuni casi di non sentire/sopportare il malessere dell’altro. E’ la negazione della pena che l’altro suscita a far agire in modo non sempre faverole, o meglio lo è per l’altro, ma non lo è verso sè stessi. Si può provare empatia ma frenarsi dalla tentazione di voler fare o aiutare a tutti i costi. L’empatia infatti non implica diventare l’altro, ma immedesimarsi, non richiede per forza una risposta proattiva, specie se mette sempre da parte ciò che conta per noi.
Le relazioni come sempre afferma la Twenge e mi trova concorde pienamente, dovrebbero basarsi sulla reciprocità. L’aiuto e il lavoro psicologico dovrebbero sempre implicare la relazione con l’Io e con l’altro,perchè se il primo soverchia il secondo si ha egoismo patologico, se il secondo domina sul primo abbiamo personalità dipendenti o carenti di confini.
Non so perciò se imparare ad essere empatici sia possibile, ma so che vedere questa sera a me ridona un senso di pace con il mondo, come fa certa musica, espande un senso di tenerezza che a fine giornata mi manda a dormire serena, perchè come a molti nella serie, anche a me il personaggio di Shaun inspira. E allo stesso tempo mi fa addormentare con tante domande sulla professione di aiuto, sull’essere umano e sul mondo che mi danno modo di riflettere in modo diverso.
https://www.focus.it/comportamento/psicologia/lempatia-e-sorprendentemente-facile-da-apprendere
Rebecca Montagnino
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