Siamo le storie che ci raccontiamo

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Non è mai troppo tardi per avere un passato migliore” R.Bandler

L’altra sera stavo guardando l’intervento di Joe Dispenza al Flowsummit, probabilmente uno tra gli interventi più intensi e stimolanti. La correlazione dei pensieri e delle nostre emozioni viste da un punto di vista scientifico e i loro effetti nel nostro corpo, è per me uno degli argomenti più straordinari, non solo per il fascino esercitato dal potenziale umano, ma anche perchè permette di capire come il nostro complesso essere funzioni. Pertanto più ne comprendiamo il funzionamento, più possiamo incidere ed influenzarlo.

Riflettevo a quanto possano essere incisive nella nostra vita le storie personali che ci “raccontiamo” sul nostro passato e quanto determinano il nostro futuro. Nel mio lavoro la narrazione è molto importante per l’elaborazione del lutto, sia per comprendere in tutte le altre situazioni come si pone la persona nella sua vita, quali sono le sue convinzioni, le sue risorse. E’ utile ancora per capire quale copione interpreta nel suo processo evolutivo e con quali peculiarità o ruolo. Per copione intendo la rappresentazione della percezione in cui inconsciamente tutti noi tendiamo a costruire i nostri mondi, narrandoli nella nostra mente volte e più volte, finchè crediamo a quella versione e ci adattiamo ad essa. Quello che ci diciamo è quello a cui crediamo e quello a cui rispondiamo, anche da un punto di vista energetico e fisico. Le convinzioni, le immagini, stimolano in noi emozioni che sono la risposta chimica/endocrina all’interno del nostro corpo. Non a caso in molti approcci terapeutici si usa inizialmente chiedere al paziente di scrivere la sua storia e di riscriverla in seguito quando ha preso maggiore consapevolezza di sè stesso.

Le persone aggiungono o sottraggono informazioni per creare i propri modelli del mondo sulla base dei propri filtri. Noi proviamo quello che ci aspettiamo di provare, udiamo quel che ci aspettiamo di udire, vediamo soprattutto quello che ci aspettiamo di vedere” Richard Bandler

Se noi quindi rispondiamo inconsciamente alle nostre storie, significa che ci abituiamo a certi stati che diventano per noi normali. Ci ripetiamo la stessa sceneggiatura interpretando un un certo ruolo, non solo in un campo della nostra vita, ma estendiamo quelle caratteristiche un pò a tutto. Di conseguenza quella storia diventa la nostra definizione, la nostra realtà e la nostra identità. Una sorta di tatuaggio che ci definisce e che rischia di restare indelebile; proprio prendendo l’esempio del tatuaggio, considerate quanto quel simbolo che “marchia” un significato importante per noi nella vita,quando cambiate le situazioni o noi stessi, possa nel tempo perdere di valore, diventare obsoleto. La storia che ci raccontiamo è un pò come un tatuaggio, solo che la scegliamo con meno attenzione e le conseguenze sono più profonde dell’inchiostro sulla pelle.

Questa capacità di romanzare chiaramente avviene al di là della nostra consapevolezza, così come il personaggio che impersoniamo, la definizione dei ruoli altrui e lo schema in cui andiamo ad imprigionarci. Attraverso la terapia l’io narratore dovrebbe quindi capire il significato di quella composizione per il suo processo evolutivo e riviverlo in modo più “obiettivo”, dove per obiettivo ci si riferisce ad una visione più consapevole.

LE CONSEGUENZE Come afferma Joe Dispenza che è considerato un neuroscienziato internazionale tra i maggiori esperti che si occupa del rapporto tra mente e corpo, se siamo definiti dai ricordi del passato e non da una visione del futuro, siamo fermi nelle stesse scelte, esperienze, convinzioni ; per una questione di familiarità/ ordinarietà uno dei meccanismi più condizionanti e potenti della nostra vita, tendiamo a ripetere ciò che già conosciamo. Le abitudini emotive diventano normali, per cui stati di ansia o di colpa diventano con il tempo il nostro habitat naturale; sono il nostro Sé. Il futuro fintanto che viene visto con le lenti del passato, blocca le nostre emozioni quanto la nostra energia. Se sono fermo a sorreggere questo schema, non ho risorse da usare per costruire qualcosa di diverso, è come se reggessi continuamente un peso e lo sforzo non mi permettesse di liberare altro. Dentro di noi le risorse esistono sempre, semplicemente non le sappiamo sciogliere, è come se leggessimo sempre lo stesso libro pur avendo una biblioteca a disposizione. Finchè non liberiamo quel potenziale, avremo le stesse convinzioni, lo stesso atteggiamento filosofico come direbbe A.Ellis, la stessa identità e non potremo cambiare nulla rimanendo nello stesso livello.

Molto spesso continuiamo a vedere il futuro con le stesse lenti del passato, per questo non riusciamo a cambiare: quello che cambiamo a livello comportamentale non può avere gli stessi effetti se non si cambia il modo, l’intenzione, le convinzioni con cui si agisce. Oppure il cambiamento non può non essere duraturo, dopo poco tempo si ripresentano situazioni e dinamiche simile. Per riuscire a cambiare dobbiamo realmente entrare nella visione e prospettiva di quel futuro, desiderandolo, portandoci dentro emozioni diverse da quelle attuali, pensieri diversi. Molto spesso non avviene perchè temiamo quel cambiamento, quello che abbiamo per quanto disagevole, presenta un punto di forza potente, la familiarità appunto. Mi viene in mente il mito della caverna di Platone di cui allego il video.

E voi quale personaggio pensate di essere all’interno di questa storia? Qual’è la narrazione che avete tatuato nella vostra mente?

Rebecca Montagnino

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