QUEL “DOLCE” FAR FINTA DI NIENTE….
Siamo sempre più intrappolati nelle nostre zone confort, che siano persone o cose, luoghi comuni o schemi emotivi, cibo o tecnologia…relazioni tossiche o modi per anestetizzarci la mente. Se guardiamo ad un eroinomane o cocainomane lo definiamo dipendente, perchè non sa rinunciare a qualcosa che lo fa “star bene” sul momento, consapevole che dopo starà più male. In cosa differenziano le nostre zone confort/dipendenze/mancanze di rinunce? Solo perchè hanno un’apparenza meno nociva ed un sapore meno immorale ed illegale, producono comunque sulla nostra psiche gli stessi effetti…Sappiamo cosa ci fa male, ma non sappiamo dire basta o limitarci, contenere il bisogno per stare meglio poi…fosse pure solo per il piacere di aver esercitato la nostra volontà e aver imparato a gestirci ( magari questo innalzerebbe anche l’autostima).
Così facciamo ancora noi, con relazioni parentali, amicali o affettive che siano, in cui stiamo male pur restandone imprigionati. Consapevoli che non stiamo perseguendo il nostro benessere, ma non disposti a scostarcene nemmeno quel tanto per non ammalarci, per paura dell’abbandono, della solitudine, per aver perso l’abitudine ( o il non averla mai avuta) di bastare a noi stessi. Senza autonomia interiore, senza aver cura / rispetto di noi, chiunque può entrare e ferirci.
E se la medicina fa progressi, non li fa l’essere umano nel momento in cui accetta di crogiolarsi in situazioni viziate o di abbuffarsi di cose che gli nuocciono. Forse quel che non passa dall’inconscio al conscio non diviene più destino come affermava Jung, ma patologia. Chiudiamo orecchie ed occhi per non assumerci la prima e più grande responsabilità della nostra vita, che è verso noi stessi e così ai sintomi che bypassano la psiche non resta che attecchire direttamente al corpo, con la speranza di essere più considerati.
Rimandiamo decisioni, pur sapendo che in fondo non abbiamo tutto questo tempo, non cambiamo quando sappiamo che dovremo farlo, per paura sempre per paura, anche solo di mettere in discussione e perdere anche una virgola di quello che abbiamo.
Se nel mondo si combattono propositi mille volte più grandi ed infiniti, siamo qui a guardare il nostro giardino ghettizzandoci dentro. Cediamo alla debolezza e non possiamo dunque permetterci il lusso di valutare quella altrui; il restare pigramente accucciati nella zona confort fa si che non possiamo giudicare l’altro delle nostre medesime mancanze. In tal modo il circuito non finisce mai. Se l’altro resta fermo, lo posso fare anche io. Questa forma di protezionismo vale a tutti i livelli, in qualsiasi forma di rapporto…genitoriale, parentale, uomo-donna, di amicizia. Il proteggere l’altro dall’affrontare le sue debolezze fa comodo, non solo a lui, ma anche a noi, in qualche modo c’è in questa dinamica bidirezionale un aspetto vantaggioso nascosto e subdolo.
Non osiamo ammettere che anche la bontà può essere manipolativa, non ce lo dicono da piccoli e una vita non basta a farcelo imparare. Perchè è molto più easy far finta di niente, con noi stessi e con gli altri. Non vediamo o continuiamo volutamente ad illuderci, per andare avanti senza cambiare niente, senza decidere per il nostro benessere di domani, non sappiamo rinunciare a quello a cui potremo e dovremo rinunciare oggi. Avidi, affamati di purezza, alla ricerca di un mondo che non richieda una costante valutazione- decisione e responsabilità, quello che perseguiamo è la vita dei bambini insomma. Cerchiamo l’affinità, accettiamo e ci accontentiamo di una condivisione forzata, solo per sentirci meno soli e impauriti. Incapaci di fare persino quel piccolo passo indietro utile a non farci calpestare o imbrogliare. Il dolce far finta di niente, arte di cui in questo paese siamo abilissimi…Coprire tutto da un manto di buonismo, perbenismo, accettazione dove non si arriva mai alla verità, ad argomentazioni scomode, a domande che esigono una risposta.
Non pretendiamo da noi stessi di essere migliori, più forti, più consapevoli, più equilibrati, più aperti mentalmente, più curiosi, più coraggiosi e per questo non lo chiediamo agli altri, non stimolando così quella parte di forza vitale, la reattività che ognuno possiede. Ci sta bene in questo modo: la debolezza altrui legittima la mia a restar tale. Non possiamo chiedere l’autenticità se prima non la troviamo nel silenzio di noi stessi
Forse siamo rimasti attaccati al concetto di miracolo, perchè non include nessuna azione o reazione da parte nostra. C’è qualcuno che fa per noi…che valuta per noi. La deresponsabilizzazione ahimè è comoda.
Ho sentito all’inizio di un bellissimo film francese “Le Brio”, in un’intervista a Jaques Brel una domanda sull’ottusità e la sua risposta l’ho trovata così semplice e perfetta, tradotta dice più o meno così…“L’ottusità è la pigrizia; è uno che vive e dice ; mi basta.. vivo, sto bene. L’ottusità è non alzare il sedere tutte le mattine dicendosi non sai abbastanza cose, non vedi abbastanza cose, non impari abbastanza cose. E’ del grasso attorno al cervello e del grasso attorno al cuore”.
Rebecca Montagnino
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