La morsa del “Non posso dire no” nel lavoro: e se l’insicurezza alimentasse il profitto????..
Se oggigiorno c’è un campo in cui più difficilmente si riesce A DIRE DI NO è quello del lavoro. Ovviamente quello relazionale-affettivo lo batte sempre, ma la difficoltà ad essere assertivi nel lavoro, sta iniziando a competere per la pole position. Dai webinar fatti sull’assertività e dalle esperienze dei racconti che mi rivolgono quotidianamente, realizzo che esprimere di diritto affermativo nel mondo professionale, sta diventando una grande difficoltà. E non è un fenomeno recente dettato unicamente da esigenze aggravate dalla crisi economica del covid, circolava già da prima…Rileggendo indietro un mio post “SCHIAVI del lavoro” del 2014, mi ritrovo a descrivere dinamiche di oggi già presenti allora. La situazione di sfruttamento a cui stiamo assistendo non è quindi solo dettata dall’aumento delle richieste e dall’aumento della popolazione lavorativa, che spesso si ritrova a vagare in settori che sono quasi tutti ormai saturi; non dipende nemmeno solo dalla crisi economica che tutto il mondo sta pagando per la pandemia. Quello su cui si fa leva, magari spingendo di più sull’acceleratore, è la convinzione che “non si può dire di no”. In questa problematicità c’è anche e molto in realtà, un lato psicologico che chi detiene l’offerta di lavoro e stipendia, sa ben utilizzare a suo vantaggio . Anzi ce ne sono due.
FATTORI PSICOLOGICI. Intanto vediamo come avviene questa forma di “assoggettamento” in cui sembra impossibile far valere dei normali diritti. L’orario prolungato del lavoro oltre quello da contratto, in primis. Non darei la colpa allo smart working che di fatto sta fondendo spesso vita lavorativa e privata senza un confine tra le due (confine che comunque potrebbe sempre essere messo). Avviene anche nel lavoro in presenza e avveniva già prima del febbraio 2020. I giovani soprattutto, ma non solo, si sentono di dover assecondare richieste all’ultimo minuto come se non ci fosse altra scelta o possibilità. Turni che cambiano costantemente divorando sempre più il tempo personale, in un meccanismo progressivo senza che i committenti ne siano consapevoli. Aleggia una minaccia che considerata l’efficacia e i risultati fin qui ottenuti, è diventata subdola ma costante e ben radicata in ognuno di noi. Quello che arriva da tale monito è: “o così o niente, devi sempre dare il massimo per non essere buttato fuori, il lavoro prima di tutto”…
Il primo fattore appunto su cui il mercato del lavoro fa perno per capitalizzare e sfruttare la produttività, è l’insicurezza. Le giovani generazioni sappiamo, soffrono in modo epidemico di gravi insicurezze ed ansie personali che non possono essere colmate solo dalle competenze che una laurea o un master certificano; esistono quelle interiori che non hanno certificato esterno che le elimini o che garantisca la presenza di un carattere sufficientemente forte e solido da potersi esprimere, asserendo i propri diritti. Identità che invece si ottiene con la formazione del carattere e la consapevolezza di chi si è, elementi carenti e che non si acquisiscono con un corso universitario.
Si viene educati in modo passivo, senza mettere in discussione l’autorità genitoriale, perchè troppo grati o troppo comodi, senza argomentazioni mature o senza aver esperito un minino di prove nella vita, che rendano autonomi dentro e adulti fuori. Si cresce perciò senza essere sufficientemente ed emotivamente adulti. Questo insieme di fattori crea un’aspettativa poco realistica sull’autorità nel lavoro e mancando di assertività a livello psicologico, viene a mancare la conquista e il riconoscimento dei propri diritti in tutti i sensi. Si arriva ad avere una visione perciò confusa, spesso distorta di cosa aspettarci dal mondo del lavoro; un pensiero distorto è più facilmente manipolabile, tanto più che questa visione regna un pò ovunque e non ci sono confronti con atteggiamenti diversi. Ci si confronta cioè con persone che vivono la stessa esperienza, rafforzando un senso di ineluttabilità alla situazione, una mancanza di alternativa. Sappiamo bene infatti che spingendo e minacciando con la paura, si ottiene la sottomissione di chi è più insicuro. Mi viene in mente il film “Il socio” del 1993 di Sydney Pollack in cui il protagonista si ritrovava invischiato in uno studio legale, dove dall’apparente innocuo senso di famiglia, veniva pian piano inghiottito anche a costo della propria vita privata. O “L’ avvocato del diavolo”, per quanto allegorico, film in cui Al Pacino, satanico e sapiente mentore di un giovane avvocato, ne percepisce il lato narcisista e lo irretisce facilmente, trascinandolo nel suo piano. Quest’ ingranaggio è molto usato: lavorare in una grande famiglia ricorda in fondo quella da cui non si è mai ancora usciti e nutre quel bisogno di appartenenza così insidioso. Peccato che non sia una famiglia alla “pari”; a meno che sia una società per azioni, la maggior parte delle volte si lavora per il profitto altrui senza che all’aumento di questo ne consegua un beneficio personale.
Il secondo fattore su cui fa leva il mercato del lavoro è il bisogno di accettazione; cosa penserà l’altro di me se non faccio quello che dice è un pensiero insopportabile e che crea assuefazione, ansia da prestazione e muove verso un estenuante perfezionismo: se sono il migliore, sono impeccabile, nessuno può criticarmi, nessuno può superarmi. Motivare generando un senso di sfida e competizione costante, con sè stessi, con il senso del dovere e con la necessità di eccellere e di ricoprire in un incarico in un posto che fa status, è il modo usato per “catturare ” la persona attraverso il suo ego. Anche a costo di essere sottopagati o di essere schiavizzati questi giovani lavoratori stanno al gioco. In fondo nemmeno gli adulti accanto a loro che dovrebbero guidarli, capiscono che più del posto fisso e della loro smania di vedere i figli ben sistemati e di poterlo così fieramente raccontare in giro, conta piuttosto come stanno e come sanno farsi valere. Sappiamo come l’era del narcisismo esalti l’immagine e quei valori che possono essere strumentalizzati da chi ne sa sfruttare la debolezza per il proprio vantaggio produttivo, eppure per quanto le regole non siano nemmeno poi così subdole, ci si perde dentro.
Il perfezionismo sappiamo essere lo schema che porta spesso al work alcoholic/addiction , ovvero alla dipendenza dal lavoro per cui si sottrae sempre più tempo alla vita privata e alla propria salute. Si arriva ad un punto per cui la compromissione è tale che mancanza di tempo per sè restringe talmente tanto le relazioni con il mondo, che lavorare compulsivamente resta l’unica scelta. Ma perchè oggi si cede più facilmente a questo schema? Rispetto ad un tempo la competizione è in crescita ma soprattutto l’autostima si concentra solo sulla propria efficacia e non sull’aspetto caratteriale: ci identifichiamo su cosa facciamo e non su chi siamo davvero.
Parliamo spesso di sicurezza su lavoro intesa come l’insieme delle misure per proteggere la salute e il benessere dei lavoratori. Peccato manchi nei corsi di HCCP, un protocollo per la sicurezza interiore dell’individuo, che si presume l’abbia già conseguita prima dell’arrivo nel mondo del lavoro.
Cosa accadrà ora e dopo la pandemia? La spada di Damocle della carestia renderà ancora più basse le reazioni allo sfruttamento, l’assoggettamento ancora più irreplicabile. L’insicurezza latente, emersa ora in modo tangibile con il covid, è chiaramente un fattore da tenere sotto controllo, perchè può solo alimentare i profitti di chi sapientemente sa manipolare le fragilità caratteriali. Il pericolo subdolo e costante del perfezionismo crea la trappola finale e considerando quanto sia diffuso, diventa facile farsi sfruttare. Forse accanto ad un buon cv o ancora prima, servirebbe una buona dose di fiducia in sè, di sana e vera autostima e come sempre ..di tanta assertività!
Rebecca Montagnino
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