Essere soli o sentirsi soli?
Che differenza esiste tra l’essere soli e il sentirsi soli? La solitudine e le sue varie sfaccettature, è uno dei temi più discussi durante le terapie e nella nostra attuale società. Sicuramente l’effetto del lockdown e del distanziamento sociale hanno riacutizzato in alcuni casi il vissuto. Ma se per alcuni ha significato affrontare ancora più intensamente la propria sofferenza al riguardo, per altri invece la chiusura al mondo ha rappresentato un accomodamento maggiore nella propria confort zone. La solitudine è quindi percepita da tutti allo stesso modo e se no, da cosa dipende?
Per questo qualche tempo fa mi ha colpito il titolo di un libro “La solitudine. Capirla, gestirla per non sentirsi soli”. Ad incuriosirmi ancora di più è stato il suo autore Giorgio Nardone, fondatore della Scuola Strategica in Italia e conosciuto per le sue opere come “Psicosoluzioni”, in cui come preannuncia l’approccio a cui fa capo, offre solitamente una vasta gamma di esercizi per affrontare il disagio psicologico. Sebbene anche qui siano presentate varie tecniche, al contempo viene dedicato un ampio spazio a teorie filosofiche e psicologiche sulla materia, dando degli spunti riflessivi molto interessanti. Fra tutti quello che distingue il sentimento dell’essere soli , da quello del sentirsi soli.
SI E’ DAVVERO SOLI QUANDO SI E’ SOLI ???? Nella prima parte l’autore affronta lo stigma della solitudine. Questa visione assolutista e negativa si esprime nella nostra lingua dalla mancanza di termini che indichino anche sfaccettature piacevoli dello star soli. In inglese ad esempio loneliness e solitude identificano due stati molto differenti, quasi opposti della solitudine; il primo definisce la solitudine come esperienza di sofferenza, mentre nella seconda esprime un vissuto di serenità . Non solo, sempre in inglese esiste l’espressione “in my own company“, che implica la compagnia di sè stessi, in cui il Sè cioè adempie ad una funzione di complicità con la propria persona. Pensiamo ancora alla parola “soledad” in portoghese che ha un fascino di malinconia, ma assume anche un valore di introspezione. Per noi l’essere solitario ha comunque sempre e solo un significato di stranezza, anormalità, ambiguità o malessere: non contempliamo che ci possano essere modi diversi di essere e di vivere lo star soli.
Nardone parte nel parlare della solitudine come di “un’esperienza necessaria ed ascetica come via privilegiata per raggiungere stati di coscienza elevati, ben distante dalla condizione di abbandono a sè stessi, di smarrimento o di estraneità e di non esistenza per gli altri che il sociologo E.Durkheim ha descritto con il termine di anomia-.
Le connotazioni che diamo alle parole sappiamo che generano poi convinzioni a riguardo, determinandone e rafforzandone convinzioni a riguardo. Avere certe visioni ci conduce inevitabilmente a viverle secondo il significato che le diamo. Ad esempio se abbiamo un condizionamento negativo rispetto alla solitudine, ci porterà ad aspettarci un’equivalenza opposta del tipo: quindi non essere soli=felicità, o felicità= non essere soli, contaminando il vissuto con attese idealizzate. Idealizzazioni irrazionali che non considerano anche gli aspetti negativi dello stare con gli altri o l’Altro, presenti in ogni situazione assieme a quelli positivi. E questo spiega perchè quando tali aspetti si presentano, ci provocano delusione ci fanno mettere in dubbio la qualità della relazione stessa.
SOLITUDINE O ATTACCAMENTO
Chiaramente le esperienze quando sono idealizzate vengono anche estremizzate, per cui la misantropia come la dipendenza dagli altri sono due situazioni di irrigidimento di schemi che non conducono al benessere. In genere però per come è impostata la nostra società, specie la nostra cultura, il rischio è maggiore per quanto concerne la dipendenza: siamo portati a colmare il nostro naturale vuoto esistenziale nelle braccia dell’altro. Chiedendo aiuto e protezione, per mancanza di autonomia e perchè come troppo spesso iperprotettivi e simbiotici sono i rapporti genitoriali, tali devono essere quelli con il partner. Non si cerca tanto la complementarietà o reciprocità quanto la morbosità come afferma sempre l’autore; più si teme l’abbandono più ci si dona incondizionatamente, perdendo sè stessi e creando relazioni tossiche.
Se come ci insegna la teoria dell’attaccamento di Bowlby ricerchiamo nei legami sentimentali della vita adulta, quello che abbiamo avuto nei legami primari del passato. Probabilmente ciò che inseguiamo non è una figura che ci complementi, quanto che ci accudisca. In questo modo se il senso di dover contare/dipendere sugli altri ha indebolito il nostro io, quello che continueremo a chiedere è un altro Io su cui poterci poggiare. Cosa accade quando due Io fragili si incontrano?
SOCIALIZZARE COME FUGA . Come afferma anche l’autore l’avvento dei social ha creato l’ illusione che il vuoto della solitudine potesse esser colmato, peggiorandone paradossalmente persino l’esperienza. Egli dedica una parte considerevole del libro a quanto questo fenomeno abbia semplicemente spostato l’attenzione su false credenze: i social non fanno sentire realmente connessi, non sono realmente scambi di rapporti, ma un bisogno, tendente a crescere tra l’altro, di visibilità. E i mezzi per ottenerla presentano un enorme rischio: quello di modellare la propria personalità alla ricerca dei like.
La socializzazione come fuga dalla solitudine invece di ridurne la sensazione la fa aumentare, costringendo ad esasperare la ricerca di contatti e conferme, alimentando ancora di più l’intima solitudine del soggetto, afferma sempre l’autore. Definisce pertanto tale socializzazione compulsiva, come un sedativo, uno stupefacente che nel suo euforizzare, allontana la sensazione ma non la estingue.
LA PASSIONE COME ANTIDOTO
Al contrario se pensiamo all’esperienza di solitudine di un religioso, ma anche di uno scienziato, di un’artista, possiamo immaginare come trovi nella sua forma di devozione una relazione profonda con il suo sè, esperienza appagante ed immersiva quanto quella con i suoi simili. La stessa filosofia esistenzialista parlava della solitudine come di uno stato naturale della condizione umana, in quanto ogni nostra esperienza di vita dipende dalla nostra particolare percezione individuale- La solitudine è di fatto uno stato semplicemente ineluttabile che ci piaccia o meno.
Lo stesso Camus nel suo famoso saggio Il mito di Sisifo, asseriva che occorre cercare, tra la nascita e la morte, di vivere il più possibile momenti di intensità: la passionalità diventa l’antidoto alla solitudine. “Passionalità che comporta il lasciarsi coinvolgere, impegnarsi almeno per qualche cosa, un credere in alcuni valori, un essere disposti a lasciarsi toccare nel nostro intimo da eventi, idee, ideali, sentimenti, affetti, problemi altrui: infine un’attenzione verso noi stessi fatta di sforzo di conoscenza e ricerca di orientamenti e significati. Solo in questo modo riusciremo a rompere la solitudine di vuotezza“
E ancora …”se riusciremo ad amare senza imprigionare, ad essere amati senza temere l’abbandono, a provare stupore e ammirazione davanti al mondo, a scoprire con gioia i tratti di bontà negli altri uomini e a non sentirci rivoltati dai loro limiti.” (Agazzi 1986)
SENTIRSI SOLI O ESSERE SOLI. La moderna psicologia si distacca dal concetto psicoanalitico di solitudine, in cui era considerata come una virtù, dando a seconda degli approcci una connotazione diversa.
Quello che ho trovato molto coinvolgente e stimolante nell’opera di Nardone, è innanzitutto la differenziazione tra solitudine e sentirsi soli; in effetti ci si può sentire soli anche in una folla di gente, mentre una persona sola può non percepire affatto sentimenti di vuoto. Questo stato o sentimento che sia, sembrerebbe perciò non dipendere dall’effettiva presenza o meno di persone attorno a noi. Conosciamo l’estraniamento emotivo ad esempio e la vediamo (vedevamo) di frequente in coppie, che al ristorante siedono uno di fronte all’altro senza avere nulla da dirsi, spesso giocando con i loro telefoni.
L’esperienza della solitudine è quindi innanzitutto un’esperienza soggettiva, dipende cioè dal significato personale e dalla percezione che ognuno gli dà. Le ricerche citate nel libro infatti sull’attivazione cerebrale mostrano esattamente come la percezione della solitudine sofferta attivi aree del dolore e d’allarme, mentre la solitudine felice attiva le aree del piacere.
Molti autori sono concordi che il raggiungimento di pace interiore rispetto a tale stato, sia un necessario antecedente alla capacità di avere relazioni sane, non basate sulla dipendenza. Come diceva anche E.Fromm nell’Arte di amare “Paradossalmente la capacità di stare soli è la condizione prima per la capacità di amare” Questo come molti temono non implica un processo di non ritorno: il bisogno di socializzare o l’abilità nel farlo non viene meno, migliora solo il nostro relazionarci con gli altri.
AUTOFOBIA: LA PAURA DELLA SOLITUDINE.
A guardare però il sospetto con cui ci si approccia al concetto di solitudine oggi e soprattutto alla paura di restare soli, verrebbe da pensare proprio il contrario. Anche qui concorrono fattori culturali; a seconda del posto in cui si vive, la solitudine viene percepita con un diverso effetto.
Sicuramente in generale la struttura della identità si è indebolita, generando personalità fragili , insicure e bisognose di aggrapparsi agli altri, specie quando il vuoto e la noia del proprio essere si ritrovano a non vivere altre forme di coinvolgimento passionale, come diceva Camus. Quando manca il Senso cioè lo cerchiamo nell’Altro.
Persino un figlio viene vissuto come un essere che ci sottrae dalla solitudine, in quanto proprio per le attenzioni che richiede, permette di compensare quel vuoto esistenziale. E quando il figlio cresce? Ecco forse in questa domanda si nasconde parte della risposta per cui ci sono sempre più figli che restano tali a lungo termine, colmando contemporaneamente il loro vuoto o paura di star soli e quello dei genitori.
Anche la presenza di animali domestici, aumentata durante il lockdown, è un segnale del bisogno di compagnia o dell’intolleranza ad accettare il silenzio intorno a sè. Per la loro natura addomesticabile e dipendente, la loro presenza riempie emotivamente, dà sfogo alla necessità di trovare quell’amore incondizionato che fuori nel mondo non esiste.
CONNESSIONE E CONDIVISIONE SEMPRE . Sempre a proposito di rete, un’ altra sfaccettatura della paura della solitudine, la vediamo sta nell’accentuarsi della dipendenza da connessione e condivisione (MOFO).
Quando tale bisogno di fusionalità con l’altro diventa estremo, è chiaro e mi sembra alquanto già verificatosi, che viene a perdersi il contatto con sè stessi; anzi più tale divario aumenta dentro, più aumenta la paura di stare soli – Quel Sè ci appare allora come uno sconosciuto, un estraneo, all’interno del quale si annidano pensieri ed emozioni a noi ignote.
Quello che non vediamo è il circolo vizioso della dipendenza digitale: in questa forma virtuale di relazionalità perdiamo però gran parte della nostra competenza emotiva (che si avvale, ricordiamo, in gran parte del non verbale). A lungo termine il relazionarsi diviene una disabitudine che spiega due derivazioni: la crescente difficoltà di allacciare rapporti dal vivo e quella nel capire chi abbiamo difronte. In pratica il bisogno spasmodico genera la dipendenza a la dipendenza aumenta il bisogno rendendolo ancora più forte….
E COME SEMPRE IL BISOGNO DI ACCETTAZIONE…Se come abbiamo visto la socializzazione digitale non favorisce la relazionalità vera, aumenta invece il bisogno di approvazione. Come afferma Nardone sempre, oggi prevale la necessità di piacere agli altri, di essere cercati e valorizzati, più di quanto lo sia il piacere a sè stessi. Quest’alienazione dal contatto con chi si è spiega una delle conseguenze della frequente mancanza di autostima e il processo di snaturazione a cui assistiamo in tutte le sue forme, sociali, emotive od estetiche che siano. Ovvero, “fa nulla se perdo me stesso, purchè non perda gli altri”. Nardone arriva ad usare la definizione di “prostituzione relazionale” per definire questo tipo di atteggiamento.
Accade quindi che se condizionato da fattori culturali in cui la solitudine è vista come un segno di sfortuna o malessere, il suo contrario diventa fonte di “accettazione” o meglio di riconoscimento del proprio valore. Baste vedere la rapidità con cui il cambiamento di stato viene esibito sui profili dei social: avere un partner dà la sensazione di aver acquisito status. Rassicura sul proprio valore esternamente, rassicura la propria insicurezza internamente.
Vale lo stesso per i contatti o followers. L’imperativo è: PIACERE A TUTTI, essere belli, vincenti, popolari, essere ovunque, presente con tutti, accondiscendere, non esprimere realmente sè stessi. Essere sempre disponibili, smart, esaudire richieste vere o percepite tali per non correre il pericolo di essere rifiutati. Ma va bene anche Essere tristi, compianti, esibire il proprio malessere, cercare a tutti i costi il conforto, pur di restare essere connessi e pur di allontanare quel mostro che altro non è in fondo, che l’incapacità di stare soli e guardarsi dentro.
ANSIA SOCIALE Se la socializzazione forzata è una faccia del problema solitudine, avviene anche il contrario: la solitudine diviene una scelta, una chiusura da quel mondo che spaventa Non è quindi una vera scelta, quanto una copertura alla difficoltà o paura di relazionarsi. Quando la paura blocca, quando il conflitto è qualcosa impossibile solo da immaginare, si finisce con l’annullarlo, convincendo sè stessi che la solitudine è la vera risposta e fonte di benessere. Che sia in realtà un modo di autoingannarci, lo dimostra che a fare tale scelta sono spesso generazioni giovani colpite più delle altre dalla droga dell’approvazione, a cui manca in genere sufficiente esperienza nella vita, per poter dire di aver davvero “scelto”.
LA SOCIALIZZAZIONE COME PROBLEMA Come si pone o nella chiusura o nella ricerca spasmodica, comprendiamo che socializzazione/solitudine sono due fenomeni caricati e condizionati dalla cultura del nostro tempo Non c’è posto per gli introversi in un mondo che diffida della riservatezza, di chi non ha un profilo social, seppur ovviamente artificiale, su cui basarsi.
L’ansia sociale non a caso, è uno dei problemi più ricorrenti all’interno del nostro mondo occidentale; attacchi di panico e vergogna di parlare davanti agli altri, sono segnali di risposta alla pressione esercitata da come appariamo agli altri.
Dipendenza da cybersex e dal vissuto performativo della sessualità, sono ancora altre conseguenze nate da questa aspettativa eccessivamente caricata e quindi ansiogena di come gli altri ci vedono.
La solitudine e la socializzazione richiederebbero quindi una revisione, come una purificazione da tutti i condizionamenti che le inquinanano sradicandole dalla loro reale essenza. Entrambi in fondo dovrebbero assecondare più la natura del soggetto, la sua libera scelta, più che compensare sensi di inadeguatezza o dipendenze.
Viviamo purtroppo in un’epoca in cui tutto è confuso e tende a confondersi, dove i nostri gusti sono continuamente una derivazione del nostro passato e una contaminazione dei gusti della cultura in cui viviamo. Ritrovare perciò un semplice, ma sempre più necessario modo di stare bene con sè stessi, capaci di autonomia e di amore proprio, è anche la via per affacciarci alle relazioni non con lo scopo di colmare un vuoto, ma per ridare una più autentica qualità.
Rebecca Montagnino
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