COME PARLO A ME STESSO: SONO IL MIO PEGGIOR NEMICO O IL MIO MIGLIORE AMICO?
SIETE IN CONTATTO CON IL VOSTRO DIALOGO INTERIORE? In genere nessuno ci fa caso o nessuno gli presta la giusta attenzione, ma ci parliamo sempre interiormente, dialoghiamo di continuo con parti di noi. Se un tempo coloro che parlavano da soli erano etichettati come “matti”, oggi invece sono moltissimi gli studi che rivelano l’importanza di questo contatto.
Proprio stamani mentre mi allenavo, osservavo come sia diventato naturale, vedere gente che parla al telefona da sola, magari con gli auricolari nascosti dai capelli. In macchina, per strada il parlare da soli ha perso quella valenza. Eppure se sapessimo che stanno parlando con loro stessi, cambierebbe la nostra valutazione? Diciamo che è diverso parlare da soli ad alta voce, ancora considerato un comportamento non normale e parlare silentemente con sè stessi. Se però potessimo ascoltare il dialogo interiore degli altri e prestare quel tanto di attenzione in più al nostro, verremmo sbalorditi dal constatare che la gran parte delle volte non è un dialogo pacifico, ma somiglia di più ad una sorta di conflitto.
COSA CI RIVELA IL DIALOGO INTERIORE. Un pò per predisposizione e di sicuro molto a seguito degli studi di Pnl e di neuroscienze, ho imparato a considerare meticolosamente il mio dialogo interiore: i termini che uso, il tono con cui li uso, la voce che li intona.
Le parole che ci diciamo infatti originano dai nostri pensieri e ci danno modo di essere connessi con la nostra mente. Essere padroni dei propri pensieri significa saperli gestire. Analizzare il linguaggio interiore è dunque uno dei mezzi più efficaci per scoprire e perchè no, magari estirpare, la maggior parte degli schemi e delle convinzioni limitanti che ci intrappolano nel nostro malessere.
Sul dialogo interiore parleremo dettagliamente in seguito, oggi dedichiamo questo post alle parti disfunzionali con cui ci parliamo, che paradossalmente teniamo ben strette pur sapendole tali. Approfondiremo perchè ciò che è disfunzionale, seppur in modo maladattivo, diviene nel tempo percepito come funzionale.
L’ALLEANZA CON IL NEMICO. Il dialogo interiore è qui solo uno spunto, lo spunto in grado di farci arrivare a quelle volte, assai numerose, in cui ci “alleiamo” con il nostro peggior nemico. Quel lato di noi in fondo ci appartiene da molto tempo; lo riconosciamo innanzitutto come familiare in quanto racchiude parti della nostra identità. Qualsiasi lato di noi per quanto maladattivo, alla lunga diviene confortevole ( parte dunque della nostra confort zone), nella misura in cui ci procura un senso di sollievo. Come? Esentandoci dal fare qualcosa di cui abbiamo paura, per cui proviamo vergogna o che ci fa scappare dalle responsabilità o ancora che ci protegge dall’esporci alla vita!
Quando invito i miei pazienti a concentrarsi sul modo e sulle parole con cui si parlano, viene fuori in genere una figura interna, una voce, uno stato, o che condanna/giudica di continuo, o che è rigida/severa, o che fa scattare stati di ansia rispetto ai compiti preposti, o che mantiene un aspetto vittimistico, piuttosto che vendicativo, o ancora che fa esplodere incontrollabilmente ed esageratamente la rabbia. Spesso sono presenti parecchie di queste forme, quasi mai presentano un connotato positivo, per questo si definiscono anche come sabotatori interni. Per darvi un’idea vi ricordate dell’alter Ego del film Birdman?
IL VANTAGGIO SECONDARIO. Talvolta faccio dare un nome a quella parte che rintrona mentalmente in modo ossessivo e fastidioso. La cosa sorprendente è che se da un lato si vorrebbe sbarazzarsene in quanto rappresenta una figura asfissiante, stancante, snervante, imbarazzante, ha anche un suo “vantaggio ” nella vita della persona. Secondo Freud il vantaggio secondario era: “l’insieme di quegli aspetti benefici che derivano dalle situazioni in cui ci sentiamo male. Sono aspetti non visibili e inconsapevoli, in grado di influire però sulla permanenza del sintomo” .
Ora quel lato non si disinnesca immediatamente quando viene riconosciuto, anzi sembra quasi” necessario” alla persona. Indagando più a fondo si scopre che quella parte disfunzionale è infatti funzionale ad alcune esigenze dell’individuo. Ad esempio l’ansia, sebbene eccessiva ed invalidante, può fungere da controllore interno. Facendo le cose con ansia, si è “sicuri” di fare sempre attenzione e di far bene; la paura di sbagliare diviene perciò il motivatore e la risorsa interna. Senza l’ansia – temo quindi di non avere sufficiente supervisione, mi serve da monitoraggio costante e senza rischierei di non essere abbastanza controllato- .
Un altro esempio lo possiamo avere con una parte rigida, sempre pronta a condannarci, anche questa potrebbe essere il risultato della paura di sbagliare e la leva per essere sempre perfetti. Freud parla di Super io come l’insieme delle istanze apprese durante l’infanzia, che vanno a formare la nostra personalità, soprattutto quella giudicante, quella che vuole sempre distinguere il bene ed il male, che si colpevolizza costantemente. Parti diverse dentro di noi sono piuttosto comuni in genere, possono discordare tra loro, come ci appare nel dialogo interiore, creando conflitti interiori e influendo fortemente sull’idea che ci formiamo di noi stessi.
Un blocco comportamentale per quanto condizionante, se ci pensiamo bene, ci evita di esporci e di fare eventualmente delle brutte figure. Quando questa parte diviene dominante, viene avvertita come fastidiosa ma inconsciamente ciò che ottiene è in qualche modo efficace.
R-ESISITENZA Molte forme esistono come controllori interni, specie laddove sia presente un anelito di perfezionismo e dove di conseguenza, il giudizio degli altri è vissuto in modo ansiogeno. Il problema finisce per diventare anche la leva motivazionale. R-esiste in quanto senza, la persona si percepisce disorientata; non ha mai provato altre leve e comportamenti e sente di non avere a disposizione strumenti sufficienti per raggiungere i suoi obiettivi.
MODELING –Far del proprio meglio- o raggiungere un obiettivo magari potrebbe esser stimolato dalla disciplina, o dall’assertività più che dall’ansia. Finchè infatti non c’è pronto sotto un atteggiamento o una forma mentis alternativa, il soggetto non sente di poter mollar quella presa; il problema si risolve in tal modo, mettendo un altro problema alla base, spesso ancora peggiore del primo.
Nel tempo ci si abitua ad agire così, costruendo un equilibrio malsano, percepito come gestibile, che non si osa pertanto cambiare. Il cambiamento significherebbe in questa situazione, rischiare di sentirsi persi e vulnerabili. Se imparo invece a conoscermi, a riconoscere i miei stati, i miei pensieri, posso iniziare ad esprimere ciò di cui ho paura, perchè inizio a rispettarmi e ad andare verso di cui sento di avere bisogno o diritto, in modo sano, assertivo e funzionale, senza dover ricorrere ad una figura interna colpevolizzante o giudicante. Posso persino scoprire da dove ha avuto origine e realizzare che ora quella parte la sto mantenendo in vita, mi sto allenando cioè con il mio peggior nemico
Per questo insegnare il modeling è molto importante, mostrare e far seguire modelli mentali (convinzioni e valori) e comportamentali diversi, più efficaci, serve a capire che ci si può dotare di risorse alternative, meno nocive per stimolarsi e nel frattempo confutare quel bisogno ossessivo di non sbagliare mai e di controllare sempre tutto.
LA TUA VITA DIPENDE DA TE O DAGLI ALTRI? Non tutto dipende da noi, ma tutto dipende da quale risposta diamo alle situazioni (response-ability). Se assumiamo perciò altri comportamenti, ci diamo alternative, e smettiamo di addossare ad altri/o colpe, responsabilità, giustificazioni del perchè noi non possiamo cambiare.
Quello che non ci aspettiamo è che alla fine di questo processo, saremo soddisfatti di noi. L’autostima (il feed back che io dò a me stesso e non quello che viene dagli altri), aumenta infatti e come ogni attività che colpisce il centro del piacere, tendiamo a ricercarla per ripeterla. Quando smettiamo ancora di negoziare, piuttosto che trovare ricompense o punizioni per far o non fare qualcosa, quando quella parte e in fondo la nostra vita la gestiamo noi, ci sentiamo sereni ed appagati. Recuperiamo la nostra volontà, la sappiamo indirizzare e percepiamo quindi il nostro potere personale
TAME THE MONKEY. Ogni “scimmia” può essere addomesticata; compresa la sua funzione nella nostra psiche, la possiamo liberare e liberare noi stessi dalla schiavitù di averne bisogno.
In realtà non ne abbiamo bisogno, anzi, ci siamo solo abituati e siamo abituati alla convinzione che senza, non riusciremo a fare certe cose. Talvolta quest’aspetto è inconscio e ci appare solo la punta dell’iceberg del comportamento e solo quando ne soffriamo. La domanda importante non è sempre sapere a tutti i costi da dove viene, nè è specialmente cosa fare per sbarazzarsene; chiedersi questo non è sempre utile e talvolta rafforza più che abolire quella condotta. La domanda più funzionale è: a cosa serve, quale significato ha per noi. Quando la figura che stiamo asservendo diviene chiara, quando dialoghiamo con essa, possiamo anche scegliere di arrabbiarci, di essere più rigidi, ma in modo cosciente; diviene una scelta appunto e non qualcosa che subiamo. Avviene una “volta tanto” e non più una dinamica che ci perseguita.
Ci sono tante parti noi; alcune ci stimolano, altre ci parlano con tenerezza, altre ci consolano, tutte possono diventare degli spunti di riflessione. Come per i bambini esiste un amico immaginario, esiste un parte di me “migliore amica” anche quando diventiamo adulti.
Se il conflitto interiore è abbastanza inevitabile, lo è meno il modo che abbiamo di lasciarcene condizionare. Tutto dipende come sempre dalla mia decisione. Con chi scelgo di allearmi: il lato oscuro che mi protegge o il lato luminoso che mi richiede responsabilità ma anche che mi offre complicità?
Rebecca Montagnino
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