MAL DI LANGUISHING.
Languishing -in italiano traducibile con languire– è una condizione psicologica che indica assenza di benessere, di gioia e di scopo, in cui la persona si sente svuotata, inerte, priva di energia e vitalità. Questo senso di indifferenza si stabilizza nel tempo e alla fine viene a morire la voglia di fare, in quanto viene a mancare l’entusiasmo della prospettiva.
Adam Grant, famoso psicologo, descrive il languishing in un recente articolo sul New York Times come : ” un senso di stagnazione e di vuoto. Ti senti come se stessi confondendo i giorni, come se stessi guardando la tua vita dietro ad un finestrino appannato. Questa potrebbe essere l’emozione dominante nel 2021″. Invece del Fluorishing (stato che fa fiorire la persona), lo stato emotivo dominante verte verso l’ apatia.
L’attenzione crescente dei media al fenomeno, deriva proprio da questo: il fatto che non ci siano segnali di una tipica depressione è ingannevole. In realtà la presenza di segnali di non vitalità, avvicina questo stato alla depressione e aumenta la possibilità che nel futuro insorgano problemi derivanti dal disturbo post traumatico da stress.
LO SPEGNIMENTO DEI DESIDERI DURANTE LA PANDEMIA. Sebbene il termine sia stato introdotto nel 2002 da Core Keyes , viene spesso utilizzato per delineare la situazione psicologica di molte persone durante la pandemia. L’impossibilità di fare progetti infatti, con la difficoltà nel dire quando e come si sarebbe usciti da questa situazione, assieme a speranze avvicinate e allontanate, ha finito con il sopprimere lo stesso desiderio. – Se non posso averlo, allora smetto di sognarlo – in poche parole.
Sappiamo quanto sia importante per gli individui avere una forma di progettualità di qualsiasi tipo, lavorativa, relazionale, anche semplicemente di organizzare e pianificare un viaggio. Specialmente dopo decenni in cui sembrava che ogni desiderio potesse esaudirsi anche in modo facile e velleitario, di colpo lo shock della pandemia ha bloccato questo slancio vitale. E’ stato un colpo che più o meno sommerso, ha portato lentamente allo spegnersi della voglia di fare. A che serve è diventata la frase più o meno consapevole che ha accompagnato molti di noi in quest’anno e mezzo, facendo nascere lentamente uno stato di de-motivazione e di spegnimento emotivo in cui si è scivolati purtroppo sempre più diffusamente .
Tuttavia credo e non è un caso che il termine abbia trovato natalità prima di questo triste periodo che la condizione di languishing trova terreno fertile maggiormente in una società competitiva che bombarda la nostra quotidianeità di desideri liquidi, di consumi facili, di aspettative eccessivamente alte. L’illusione di poter aver tutto, diventare chiunque si voglia, con facilità e senza impegno, in una moltitudine di stimoli incessanti, può a mio parere aver favorito l’insorgere di tale problema e posto le fondamenta perchè questa condizione divampasse con la diffusione del covid.
Durante la pandemia la perdita o l’angoscia per un eventuale perdita, materiale o emotiva che fosse, ha obbligatoriamente “appeso” i desideri delle persone e “sospeso” le nostre vite. Questo stato di stallo ha innescato un senso di indifferenza e rassegnazione profonda: la perdita del gusto in senso psicologico o dell’olfatto in senso emotivo.
LA TOLLERANZA ALLA FRUSTRAZIONE e IL DESIDERIO. Ora che lo spettro delle varianti oscilla come la spada di Damocle nuovamente sulle nostre teste, dando questo senso di incertezza infinita, le razioni che vediamo infatti si possono dividere in due categorie: chi vive come se non ci fosse un domani, incurante di regole cautelative, buttandosi in assembramenti, festeggiamenti che sanno di negazionismo e incoscienza, o chi ancora teme di fare un passo fuori dal tunnel. In mezzo molti si trovano a provare emozioni contrastanti che spengono la consueta vitalità. Immaginate per capire meglio, qualcuno che passa davanti un’agenzia di viaggi e non ha i soldi per viaggiare, ogni giorno proverà un senso di impotenza e frustrazione che lo condurrà alla fine a camminare sul lato opposto dell’agenzia per non vedere la fonte di un desiderio irraggiungibile, finchè non proverà più nemmeno il piacere al desiderio di viaggiare. Così la frustrazione uccide insieme al desiderio anche la curiosità, -se non voglio niente, non rischio niente- e permette di raggomitolarsi tre le calde coperte dell’apatia o della confort zone (che nulla esclude possa essere in fondo la stessa cosa). Così diviene facile trovare giustificazioni esterne per restare in quello stato di deprivazione: la paura del contagio, la gestione dello stress che i cambiamenti comportano, senza ammettere che sotto sotto quello che manca e che non viene consapevolizzato è l’assenza di slancio relazionale, emotivo e in fondo vitale.
PICCOLI OBIETTIVI . Ciò che viene consigliato in questi casi è recuperare un atteggiamento di apertura e di intensità verso le nostre azioni, riprendendo le attività che amavamo prima, anche gradualmente. Darsi dei piccoli obiettivi quotidiani che ridiano la gioia di vivere e l’entusiasmo, riprendere soprattutto attraverso di essi a pianificare e a fare piccoli progetti. E credo imparare da quest’esperienza che non abbiamo nessun controllo sul presente, se non sul modo IN CUI RISPONDIAMO AGLI EVENTI, SUI NOSTRI PENSIERI ED EMOZIONI. Imparare che dobbiamo accettare ciò che avviene anche e soprattutto quando non coincide con ciò che vorremmo; imparare a tollerare meglio gli imprevisti perchè belli o brutti è di questi che si compone la nostra esistenza. Fare resistenza con i nostri desideri frustrati serve solo ad aumentare il malessere di ciò che non si avvera.
ASSENZA DI SINTOMI NON VUOL DIRE BENESSERE. Quando ho letto il seguente articolo di cui mando il link ho deciso di parlarne anche io .
A colpirmi oltrechè alla precisione di certi stati psicologici a cui assisto, fortunatamente al momento non in modo importante, è la frase finale di Adam Grant per cui l’assenza di esaurimento non significa che non si è esausti, l’assenza di pianto non vuol dire che non si soffre. Lo diceva in fondo anche Don Chisciotte, un uomo muore quando smette di sognare e sappiamo che dentro, quando non siamo mossi da nessun aspirazione o desiderio, abbiamo uno stato di vuoto che è comunque sofferenza.
In un mondo in cui la consapevolezza è a portata di pochi, quanti possono riconoscere che la mancanza di voglia di vivere non è solo uno stato di “protezione” causato dalla pandemia, ma un’assenza di vitalità pericolosa e dalla pandemia troppo spesso giustificata? Riflettere su questo, su come ci sentiamo e su come si sentono in rapporto al languishing le persone che ci stanno intorno è importante: riconoscere il malessere è il primo necessario passo per ritornare a viver. Non a sopravvivere che è la condizione del languishing-
In sicurezza, ma tornare a fiorire.
Rebecca Montagnino
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