Una stanza tutta per sè: il diritto alla privacy
Cosa intendiamo noi per privacy. A forza di accettare spesso di dare i nostri dati personali navigando sul web, la privacy è oggi un argomento di grande confusione. Non parleremo qui della privacy sul web, sebbene i social mostrino la contraddizione attuale tra il desiderio di custodire la nostra intimità e la svendita tramite l’esibizione di qualsiasi cosa abbia a che fare con la propria persona; in questo post parleremo di privacy intesa con il suo sinonimo di riservatezza, o intimacy come la definiva egregiamente Bauman.
Ho preso perciò il titolo del post dal titolo del saggio di Virginia Woolf del 1929, che racchiudeva appieno il concetto inteso come bisogno di luogo interiore e protetto. Avere infatti uno spazio interiore ed esteriore in cui stare soli con sè stessi, coccolarsi, riflettere, essere liberi, sapere che gli altri non vi entreranno se non con il nostro consenso, sappiamo come sia importante. Il lockdown di marzo ha evidenziato questa necessità per chi si è trovato a convivere l’intera giornata con altre persone. Per quanto sembra che la nostra società sia popolata da individui incapaci di stare soli, di colpo il bisogno di un momento di solitudine è diventato vitale, perchè come per la solitudine forzata, la vicinanza protratta e obbligata è altrettanto di difficile sopportabilità. La privacy serve non solo a se stessi ma anche a relazionarsi meglio con gli altri, a rispettare la propria e l’altrui intimità, a mettere dei confini rispetto al nostro Io. In poche parole aiuta a capire e sentire la distanza che vogliamo mantenere con il mondo, anche a seconda del momento che viviamo, del rapporto che abbiamo con quella determinata persona. Attualmente c’è chi reclama per la voglia di avvicinamento sociale e chi reclama per un proprio spazio: mi domando se in tempi “normali” sappiamo davvero quale sia il nostro livello di bisogno di riservatezza e soprattutto se lo sappiamo rispettare.
La prossemica è la scienza che studia gli spazi tra le persone e come vengono gestiti; sappiamo infatti dalle ricerche nelle grandi metropoli, quanto l’eccesiva vicinanza e densità di popolazione sia uno dei principali fattori di stress. L’antropologo Hall che ha dato l’avvio a questi studi, definiva quattro tipi di distanza tra le persone: quella intima (0-45 cm); quella personale (45-120 cm); quella sociale (2- 3,5 mt); quella pubblica (oltre 3,5 mt). Chiaramente le distanze cambiano a seconda del ruolo e del grado di intimità che c’è nella relazione e dal soggettivo bisogno di spazio. L’intimità inoltre come la fiducia va costruita nel tempo, vediamo come le distanze si abbrevino a seconda del tipo di legame che costruiamo; questo significa che non basta avere un legame x per avere il diritto di entrare, occorre sapere come muoversi nel luogo sacro dell’altro per essere accettati.
Da dove deriva questa necessità? Dal semplice fatto che ognuno di noi ha un mondo interiore, una specie di bolla in cui pensieri, emozioni appartengono solo a noi stessi.
In generale dall’infanzia ognuno di noi ha la sua intimità, il bisogno di un suo spazio privato, che varia da persona a persona. Spesso lo spazio dei bambini non viene considerato abbastanza, nel senso che viene sostituito da quello ritenuto giusto dai genitori ( e che combacia con il loro) . La vicinanza può di conseguenza, in alcuni casi, essere vissuta come eccessiva ed invadente. Questo avviene in tanti modi: con le parole, con un eccesso di effusioni affettive, con il giudizio costante su come si dovrebbe essere, con l’entrare nel loro mondo senza aver stabilito come e quando lo gradiscono. Crescendo questo comportamento permane e la persona si sente sopraffatta ed espropriata del suo Io, non riesce a mettere la giusta distanza nelle relazioni, anzi non sa sentire quando quello spazio viene violato, avverte solo un senso di insopportabilità a cui reagisce con rabbia.
Molti giovani adulti mi raccontano spesso come quest’infiltrazione o controllo rimanga anche dopo l’adolescenza: genitori che entrano in bagno, che non bussano, che sentenziano costantemente sulle scelte dei figli, che guardano i telefoni, negli armadi, senza considerare che il figlio non è una loro proprietà o propaggine, ma ha una vita e una privacy a sè. Lo spazio dei figli diviene quindi uno spazio violato a cui ci si sottomettono passivamente; la gratitudine per tutto quello che i genitori fanno, danno loro, non permette alla personalità di sbocciare, nè tantomeno l’individuo si sente in diritto di affermare il suo fastidio e il suo bisogno maggiore distanza. Diventare assertivi implica anche chiedere che questo luogo intimo venga rispettato.
Perchè le generazioni più vecchie in genere sono più assertive? Principalmente perchè con l’età il bisogno di accettazione diminuisce, si tende a godersi di più la vita, facendosi meno problemi di quelli che già ci sono; si riconosce che spesso l’attenzione al pensiero altrui non è servita a molto e quindi vale ottimizzare il tempo di vita. In passato inoltre l’età adulta iniziava prima, si veniva meno protetti, per cui il carattere si sviluppava prima. Oggi l’entrata nel mondo adulto è tardiva, la protezione esercitata fino a quel momento insieme alle molte attenzioni, non permette l’emancipazione senza sensi di colpa, talvolta non arriva proprio. Sembra quasi che l’individualizzazione dei figli significhi per i genitori realizzarsi in qualcosa che non sia la figura di care giver, per i figli combattere con un senso di ingratitudine che viene loro rinfacciato costantemente (ho fatto di tutto per Te, se mi vuoi bene devi volere la mia vicinanza simbiotica). Anzi talvolta più un genitore si sente insoddisfatto della propria vita personale, lavorativa o affettiva, più il grado di intrusione nella vita dei figli aumenta, quasi a richiedere una simbiosi compensativa.
Terzo fattore infine che differenzia l’assertività nelle generazioni, è dovuto alla nostra era narcisista, l’era dell’apparenza e dei social. Il bisogno di accettazione è una droga che si prende dalla cultura, fin da giovanissimi. Il senso di essere socialmente apprezzati e perfetti è infatti piuttosto dilagante, quasi inevitabile per chi è nativo digitale e ben conosciamo come sia impossibile essere assertivi, ovvero sè stessi e contemporaneamente alimentare il bisogno dell’approvazione altrui.
Avere la propria intimità non significa non amare, non sentire il legame; semplicemente ognuno vive la riservatezza e la fisicità a modo suo. Non significa provare meno, quanto aver bisogno di maggiore libertà e spazio. E’ proprio la mancanza di assertività che diviene poi la causa del conflitto, non riconoscer quei sentimenti di fastidio, implica il non saperli esprimere: anche qualora se ne avvertisse l’emozione, diverrebbe difficile manifestarla, per paura di ferire l’altro, creando un conflitto. Si rischia così facendo invece esattamente che si avveri la profezia, perchè saper manifestare un desiderio, nel senso di vorrei che o non vorrei, fa pare dell’essere assertivo e permette all’altro di conoscerci meglio e di calibrarsi con noi.
E’ un nostro diritto, ed è proprio questa l’essenza dell’assertività, esprimerci, prima ancora che per l’altro, per affermare noi stessi. Il contrario genera invischiamento, rancore, disonestà emotiva, nella misura in cui si mostrano emozioni al posto di altre.
Aggiungo un recente link per approfondire la tematica che stiamo affrontando.https://www.corriere.it/scuola/secondaria/20_novembre_18/genitori-rispettate-privacy-vostri-figli-teenager-non-intromettetevi-dad-211cf268-28e3-11eb-92be-ccd547aa4d2b.shtml ..Per chi poi volesse conoscere meglio il tema dell’assertività, ven 4 dicembre alle ore 21 e sabato 5 dicembre alle ore 10 terrò un webinar sull’assertività pratica: “Quanto sono assertivo, quando non lo sono e quali modi di comunicare possono aiutarmi ad incrementare il rispetto per me stesso??? “Se sei interessato, vuoi prenotarti o maggiori info, mandami pure una mail.
Rebecca Montagnino
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