FELICI ..PER FORZA
In occasione delle presentazione del festival di psicologia a giugno, l’Ordine ha inviato quest’articolo bellissimo che almeno a me ha toccato tanto. Sembra un paradosso cercare la felicità forzatamente ma… Nell’era in cui viviamo, ci sentiamo quasi in obbligo di mostrarci felici agli altri, tanto che stiamo cedendo a ingannare anche noi stessi, sopprimendo dentro di noi ogni contatto emotivo, rassegnandoci ancora di più o vivendo realtà virtuali. Come per le feste essere felici e apparire tali è un must, sebbene ingannevole ed irrealistico, viviamo in una sorta di vetrina da social che deforma la vita vera. Spinti e condizionati da una cultura dove l’apparenza conta più dell’autenticità, bisognosi di approvazione, abituati a farlo in modo automatico sul web, stiamo cadendo in questa trappola illusionistica. Ne avevamo già parlato nel posto “ridere per non piangere” di quanto possa essere ingannevole la felicità, il comportamento di chi mostra fuori che va sempre tutto benissimo. Tanto più è forzata tanto più nasconde malessere. Ho trovato l’articolo sottostante, davvero pieno di verità e utili riflessioni, tra tutte quella di Jung molto vicina al mio pensiero: il vero benessere nasce dal riconoscere e vivere ciò che siamo davvero. Buona lettura!
Dall’11 al 14 giugno il Festival Psicologia torna ai luoghi delle origini: il quartiere San Lorenzo ospiterà la psicologia nelle sue piazze, nei suoi parchi e nelle sue strade.
A tutti i costi felici.
La tirannia della felicità potrebbe portarci lontano dai nostri sentimenti più autentici.
Pochi giorni fa, a Sanremo, Tiziano Ferro emoziona tutti i presenti parlando del diritto alla felicità. Se entriamo in una qualsiasi libreria, ci sopraffanno i manuali di auto-aiuto sulle tre, cinque, dieci mosse per essere felici. “Solo vibrazioni positive!”, ci saremmo sentiti dire almeno una volta negli ultimi 6 mesi (se la vostra vita sociale è più ricca della mia – e vi assicuro che ci vuole poco – questo indice statistico può salire vertiginosamente).
“Metti su una faccia felice”, scrive sullo specchio il neo premio oscar Joaquin Phoenix nelle vesti di un Joker allucinato prima di uccidere il suo conduttore televisivo preferito. A furia di ascoltare i pervasivi mantra sulla prescrizione della felicità, iniziamo a percepire anche le note dissonanti, e ci viene voglia di insorgere davanti alle scintillanti luci instagrammate dei Mulini Bianchi sparsi su tutta la terra e convenire con le parole del grande scrittore Haruki Murakami: La felicità è una allegoria, l’infelicità una storia.
D’altra parte, uno studio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità su “depressione e altri disturbi mentali” pubblicato nel 2017, ha rivelato che circa 300 milioni di persone nel mondo sono affette da depressione, con un aumento di oltre il 18% avvenuto tra il 2005 e il 2015. L’OMS considera che, secondo le stime, la depressione nel 2030 diventerà la malattia più diffusa al mondo. Fonti Eurostat riferiscono che in Italia 3,5 milioni di persone combattono contro la depressione, in Europa si stima siano oltre 35 milioni. Ed evidentemente i numeri sottostimano il problema, che spesso non giunge ad una soglia smaccatamente clinica, ma nutre un sottobosco significativo di disagi di matrice ansiosa e di varie declinazione di tristezza.
Provando a mettere insieme i pezzi di questo puzzle, sembra che ci sia una tessera così difficile da incastrare: l’origine della infelicità.
Il rischio di alcune derive del pensiero positivo è considerare la felicità una questione esclusivamente personale, un prodotto della volontà e dell’impegno. La proposta di sceneggiature sociali in cui si sorride e si ammicca e quello significa vincere e piacere può alla lunga produrre una specifico prodotto di scarto altamente tossico: non sapere che farne delle proprie emozioni di tristezza, rabbia, frustrazione.
Considerarle disallineate, disarmoniche, in ogni caso sbagliate, e costringersi a esiliarle dal proprio universo emozionale. Con l’effetto collaterale di produrre un più profondo senso di straniamento e indifferenza nei confronti della realtà.
Eric G. Wilson, che ha dedicato diversi scritti alla malinconia, sostiene che stiamo perdendo la capacità di trasformare il dolore e la mancanza in creazione e ricerca. E potremmo aggiungere: l’equazione che si sta imponendo tra il non essere sempre allegri e ottimisti e l’essere sfigati (e attirare ulteriore sfortuna nella propria vita) sta reificando un tipo di pensiero pericolosamente superstizioso.
Nel recente libro “Happicracy” (titolo tradotto dal più articolato originale “Manufacturing Happy Citizens”) gli autori Eva Illouz e Edgar Cabanas sostengono che questa parossistica spinta alla felicità sia correlata ad un sistema di controllo sociale: sostenere che la felicità dipende dall’individuo minimizza la matrice sociale ed economica della sofferenza, induce alla sopportazione e contrasta le istanze di dissenso politico.
Essere galvanizzati dall’idea della felicità, aderire fedelmente alle forme della felicità che troviamo sui social, abbracciare quella che sembra, secondo la definizione della psicologa della Harvard Medical School Susan David, “una nuova forma di correttezza morale”, può portarci molto lontano da una profonda analisi di cosa significa, poi, essere felici: si è quasi tentati di tradurre la felicità con una sensazione di spenseriatezza, un’allegria condita dalla mancanza di preoccupazioni. Si tende, cioè, a considerare la felicità soprattutto uno stato d’animo puntuale, che racconta, o dovrebbe raccontare, il momento attuale. Tuttavia, la felicità potrebbe meritare un lancio più lungo. Potrebbe indicare la realizzazione dei propri talenti, l’armonia nei contesti che si abitano, la capacità di progressiva costruzione di senso. Lo psicanalista svizzero Carl Gustav Jung, che ha fatto della riflessione sul senso il caposaldo della sua vastissima ricerca, sosteneva che vivere una vita felice significa soprattutto arrivare ad essere più compiutamente se stessi, integrando le proprie parti in luce con le proprie ombre, e conquistando un territorio interiore che assomigli il più possibile al proprio autentico sé: riteneva che molte vite trascorrono senza che ci si ponga mai la domanda sull’autenticità delle proprie scelte e lontane da una piena responsabilità esistenziale.
L’enfasi sul significato sembra portarci lontano dall’idea di felicità pret a porter che funziona nella nostra cultura. Ma rimane vivo il germe originario del ragionamento: la felicità non può essere imposta né indossata alla meglio. Non può, soprattutto, essere simulata. Bisogna avere una ragione per essere felici.
Epilogo. Uno dei miei vicini di casa, che ha 17 anni, mi ha detto che si è tolto da instagram, perché perdeva troppo tempo con tutta quella roba finta. Però non ha tanta voglia di andare in piscina, né di imparare a suonare: insomma teme di deprimersi e si sente già ansioso. Parliamo di mondo delle emozioni e adolescenti?
Commenti recenti