COMPETITIVI O COLLABORATIVI?

Ridimensiona il testo-+=

Tempo di lettura: 6 minuti

La società performativa

Il 22 aprile è  stata la giornata mondiale della Terra, un bene di tutti, la cui salvaguardia interessa però a pochi. Ma la speranza che i 175 stati intervenuti abbiano a cuore il futuro del pianeta è il primo passo; ogni paese dovrà intervenire al suo interno, tenendo conto  soprattutto dei paesi più poveri. Per questo ci vuole cooperazione… “In quasi tutto il mondo la diseguaglianza sta aumentando e ciò significa che i ricchi e soprattutto i molto ricchi, diventano più ricchi, mentre i poveri e soprattutto i molto poveri diventano più poveri. Questa è la conseguenza ultima di aver sostituito la competizione e la rivalità alla cooperazione amichevole, alla condivisione, alla fiducia e al rispetto” (Z.Bauman)

Oggi viviamo in una società altamente performativa, cioè con un modo di vivere prettamente orientato all’efficienza. Siamo spinti verso l’efficienza da ogni direzione e non c’è nemmeno da chiedersi cosa scegliere, è inevitabile. Per stare sul mercato un prodotto deve essere più performativo di un altro, così anche le persone si assoggettano a questa filosofia e in un attimo accettano la sfida cercando di avere tutto al massimo. E lo spirito cooperativo dove è andato a finire?

Competizione o collaborazione?

Competizione e collaborazione: le due componenti possono apparire diametralmente opposte, ma sono in realtà due aspetti che hanno contribuito allo sviluppo dell’essere umano e alla sua evoluzione. Non potrebbe esserci difatti una società priva dell’una o dell’altra, perchè sono due lati che stimolano aree fondamentali della crescita. Insieme contribuiscono a creare l’Identità sociale. Molto spesso sono però due valori che si oppongono. Sicuramente nelle generazioni precedenti, probabilmente perchè reduci più freschi dalla tragedia delle guerre, la collaborazione era un valore predominante. Le persone si erano unite nella Resistenza o avevano combattuto nell’esercito, ma erano più abituate a fare gruppo. Chiaramente quel senso di appartenenza ha continuato a pervadere anche le culture successive, pensiamo alla cultura hippy che nella sua semplicità mostrava un mondo dove non solo c’era la parità e l’uguaglianza, ma dove lo spirito comunitario era dominante. La stessa Chiesa accomunava i suoi proseliti nei suoi dogmi attraverso un senso di fratellanza, persino la cultura di sinistra lo promuoveva. “La collaborazione, afferma il sociologo Sennett, può essere definita come uno scambio in cui i partecipanti traggono vantaggio dall’essere insieme”. La collaborazione è una forza capace di ridurre il narcisismo e il bisogno di autocompiacimento, in quanto ci pone  forzatamente difronte ai bisogni dell’altro.

Poi c’è stato il boom economico e la marcia verso un crescente individualismo dove gli altri non solo non sono contemplati, ma sono spesso presenti solo come mezzo di confronto o come un trampolino da cui salire e fare meglio. Questo ha sviluppato dapprima in ambito economico, poi in quello sociale e individuale il passaggio da uno spirito collaborativo ad un competitivo altissimo, basta pensare che nelle aziende oggi si fanno comunemente giochi di squadra per unire le persone e migliorare il lavoro in team. Purtroppo il concetto che si nasconde dietro l’individualismo è quello  di eccellere su tutti, per non sentirsi inadeguati. La competizione quindi viene già stimolata più della collaborazione sin dal periodo scolastico. Molto spesso i voti favoriscono questo genere di spinta individuale, fare meglio dell’altro può anche essere un principio motivazionale ed una scelta educativa, se non fosse che tutto il mondo intorno rafforza quest’aspetto a sfavore della cooperazione. Sfidarsi e sfidare gli altri è importante, tira fuori il carattere ma ha dei rischi: in primis quello di favorire la rivalità e un senso di far meglio dell’altro non per se stessi, quanto per dimostrare il proprio potere. Persino nello sport i bambini vengono spinti a battersi, più che a competere quando non sono addirittura i genitori a porsi in prima linea per contendere con i genitori “avversari”. I bambini vedono questo modo di relazionarsi lo apprendono, lo imitano, si modellano a seconda dei genitori e di quello che gli arriva. Quindi sviluppano a loro volta quest’ attitudine esasperando quest’aspetto. In fondo la competizione rafforza  l’autostima, ma  può far soccombere chi ne ha poca o  far cedere coloro che non si sentono all’altezza ( o che non hanno un atteggiamento performativo dominante). Il senso di inferiorità può così mischiarsi ad uno di grandiosità ed intrappolare chi si trova al suo interno in dinamiche di potere malsane.

Tra gli amici si protrae questo atteggiamento, nel mondo del lavoro e se  l’ odierna educazione dei figli è molto direzionata al loro eccellere nella società, il danno di un abnorme bisogno di competizione può accrescersi creando disturbi di personalità. La famiglia ha perso il suo senso di unità e la competizione  che un tempo creava conflitti soprattutto tra fratelli, oggi è una dinamica in cui entrano tutti. Persino genitori e figli entrano in competizione. Nella coppia così molte delle conflittualità dipendono da un gioco di potere. Ci si confronta dietro ad un senso di gelosia o di invidia rimarcando continuamente quello che l’altro ha in più di noi, sottolineando spesso con acredine quello che noi abbiamo più dell’altro. La competizione riguarda lo status, l’aspetto fisico, il grado di cultura, di intelligenza, le azioni che compiamo rispetto all’altro. Nelle separazioni poi la competizione trova la sua massima espressione, spesso la richiesta di un risarcimento economico nasce da un bisogno di risarcimento emotivo e a ritrovare quel potere che si è perso. L’importante è non mostrare mai di essere deboli, meno degli altri. Ovviamente se la smania del controllo cresce e la necessità di uscirne vincenti diventa monopolizzante, la fiducia verrà a cadere.

Basta vedere le persone fare sport, dove origina il concetto di competizione, per capire come  si orientano. Lo sport è intanto una sfida verso se stessi e poi verso gli altri, la modalità con cui ci alleniamo è un esempio di come elaboriamo o prescindiamo a livello comportamentale rispetto alla competizione. Nei giochi in generale si può evincere quale tra competizione e collaborazione predomina di più, come negli scacchi esistono persone che giocano sulla difensiva, altre che devono attaccare, giocare per vincere. Mentre la collaborazione rafforza non solo il concetto di gruppo, la competitività spesso provoca ansia, perchè non c’è altro modo per divertirsi o per comportarsi che non abbia il fine di vincere. Di eccellere e di raggiungere il risultato. Nel lavoro i rapporti tra colleghi sono pessimi, perchè spesso sono in guerra gli uni contro gli altri: si guardano con sospetto, in attesa di chi sarà la prossima vittima sacrificale ad essere mandata via. Come può crearsi gruppo in tali condizioni?L’attuale filosofia manageriale si attua creando un’obbedienza cieca generata dalla precarietà e dalla paura dei lavoratori, ma questa a sua volta non può che aumentare il senso di rivalità tra le persone.

 

Sempre Bauman afferma :”Il nostro mondo è costruito in modo da rendere la cooperazione e la solidarietà una scelta non solo impopolare,ma anche difficile e onerosa.. La grande maggioranza delle persone, per quanto animata da credenze e intenzioni nobili e elevate, si scontra con realtà ostili e vendicative e soprattutto indomabili: realtà di onnipresente cupidigia e corruzione, rivalità ed egoismo da ogni parte, che suggeriscono ed esaltano sospetto reciproco e vigilanza continua. Almeno il singolo può poco, o  peggio gli viene fatto creder alla fine che non può nulla. Veniamo così portati a dedurre che la diseguaglianza umana è inevitabile.” Purtroppo anche i social network che darebbero l’impressione di una piattaforma comunitaria risentono e forse aumentano il senso di competizione: per il numero di amici e per i link ricevuti. Per quanto fallace rispetto al valore della persona in sè ,denotano il bisogno di essere o avere sempre più di tutti. Ancora Sennett spiega che i social network anzichè includere, possono infatti escludere;  il fatto di avere centinaia di amici privilegia l’esibizione, specie quella competitiva.

Sta nascendo una competizione anche sulle cose negative, dove ad un problema dell’altro, il nostro deve essere sempre più grande ed importante. Mi sono sconvolta di recente quando ho sentito chiedere con tristezza  se l’Isis non veniva in Italia a compiere gli attentati. Dopo aver spiegato che non è esattamente un tour di un gruppo musicale e quindi non “si perde” a non trovarsi coinvolti in drammi come è accaduto in Belgio e in Francia, ho riflettuto che per quanto fosse una cosa terribile, era comunque un atto conseguente all’importanza di alcuni paesi europei su altri. Come se l’Italia fosse davvero poco rilevante a livello politico internazionale senza il pericolo di un attentato!

Un tempo a scuola facevamo le ricerche, si andava a casa dell’uno o dell’altro, era un modo per divertirsi è chiaro, ma era anche un modo per imparare a gestire il lavoro di gruppo e i ruoli che ognuno aveva all’interno a seconda delle sua abilità. Si giocava di più ai giochi di società dove si stava in squadra con persone più o meno brave, ma che in quel momento avevano tutte lo stesso valore. Era generare implicitamente il senso del rispetto per l’altro, annullare le diversità, imparare a dare ed ottenere la libertà dell’essere. Una cultura competitiva tende a lasciare indietro chi è meno fortunato, non so se però questo è sempre un bene. Molto spesso chi resta indietro è solo meno avvantaggiato e non è detto che da solo abbia le forze per garantirsi una rivincita.

Ritorno alla cooperazione

-Una delle conseguenze del capitalismo è quella di aver rafforzato il valore dei luoghi, di aver creato un desiderio di comunità. E’ un desiderio animato dalle incertezze create dalla flessibilità, l’assenza di fiducia e la superficialità ne lavoro di gruppo, lo spettro di non riuscire a diventare qualcuno nel mondo, di non “costruirsi” attraverso il proprio lavoro. Tutte queste condizioni spingono la gente a cercare attaccamento e profondità da qualche altra parte-, asserisce Sennett. Qualcosa sta però cambiando e l’economia solidale, le piattaforme dove si condivide un pasto, una stanza, un viaggio in macchina riflettono un bisogno molto umano di contatto vero. Sicuramente i fatti recenti in Europa sull’ondata intensissima di immigrazione, ci hanno fatto riflettere non tanto sulle possibili soluzioni, ma sulla paura che abbiamo dell’invasione del diverso. Per quanto oggi sono molti di più i liberi professionisti che lavorano soli o coloro che vivono soli, la paura dell’altro e la non fiducia aleggia fortissima. C’è da un lato un bisogno che cresce sempre di più  per la creazione di modi di vivere comunitari, forse perchè –l’attuale clima sociale favorisce l’individualismo, la competizione e la diffidenza quando le risposte migliori davanti ad una crisi dovrebbero essere opposte: solidarietà e senso di responsabilità nei confronti dell’altro. Infatti la sicurezza è un sentimento che si crea e si rinforza nell’idea di vivere dentro un orizzonte comune-  Ecco forse quello che dovrebbe essere il fine ultimo, ma il primo messaggio della Giornata Mondiale della Terra.

Dott.ssa Rebecca Montagnino

BIBLIOGRAFIA

– http://www.laterza.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1044&Itemid=101

-INSIEME, R.SENNETT

-L’UOMO FLESSIBILE, R,SENNETT

-INDIVIDUALMENTE INSIEME, Z.BAUMAN

Potrebbero interessarti anche...

2 risposte

  1. www.fabtravel.it ha detto:

    Un interessante esempio di collaborazione verso il quale le considerazioni sono molteplici e divergenti riguarda un sistema operativo per computer vale a dire il linguaggio di base per l’operatività di un PC. Da molto tempo esiste UBUNTU (parola africana che significa sono quello che sono grazie a tutti) che permetterebbe di utilizzare un computer senza dover acquistare la licenza di windows normalmente preinstallata e inclusa nel prezzo d’acquisto. Eppure il sistema stenta a diffondersi e windows o addirittura macintosh sono dominanti

    • Rebecca Montagnino ha detto:

      UBUNTU è una parola bellissima,, “In Africa esiste un concetto noto come ubuntu , il senso profondo dell’essere umano solo attraverso l’umanità degli altri, se concluderemo qualcosa la mondo sarà grazie al lavoro e alla realizzazione degli altri (Nelson Mandela , 2008)…è un ideologia che si focalizza sulle relazioni reciproche tra le persone, significa anche “benevolenza verso il prossimo”, chiaramente non abbiamo la traduzione esatta, perchè forse ci manca il concetto!!!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

 

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.